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Immagine del redattoreArcobaleno Psicologia

La speranza di Arturo in "Misericordia" di Emma Dante

Aggiornamento: 25 mar 2020

Qualche giorno fa, dopo un congresso psicoanalitico sul tema della speranza, che si è tenuto in un acquario, per l’esattezza l’Acquario Civico di Milano, sono stata a vedere uno spettacolo al Piccolo Teatro Grassi dal titolo: “Misericordia”, scritto e diretto da Emma Dante. Che speranza possono avere i pesci di vivere fuori dall’acquario? E se decidessero di rimanervi, di cosa sarebbe fatta la loro vita? Lo spettacolo di Emma Dante mi ha insegnato molto sul tema della speranza. La speranza dell’unico personaggio maschile della storia, Arturo, un po’ strano, storto, che non parla mai perché non sa parlare, che è diverso dagli altri, che compie gesti ripetitivi e auto consolatori per calmarsi, che non sta mai al suo posto: lui sperava sempre di sentire la musica della banda. Le donne che lo accudivano, invece, si sono trovate a vivere desideri contrastanti: se da una parte si erano mosse per darlo in affido, perché è costoso e faticoso accudirlo nella povertà in cui vivevano, dall’altra si sono voltate tutte non appena Arturo ha pronunciato l’unica parola che dice in tutto lo spettacolo: “Mamma!”. E una funzione materna le tre donne, in qualche modo, avevano svolto. Il gesto della loro cura che più mi ha colpito è stato quello di spolverare il pavimento su cui dovevano poggiare, in una stanza fredda e spoglia, l’asciugamano che fungeva da materasso, il cuscino, ma soprattutto il carillon. La polvere sotto il carillon non ci deve essere. Il carillon come oggetto sacro, oggetto magico, direbbe Calvino, entra nella narrazione e alimenta la speranza. Anche le donne, costrette ad una vita di stenti, che diventano improvvisamente seducenti e aggressive quando devono lavorare nell’universo della prostituzione, mettono in vita ora una dimensione di violenza subita e di provocazione, ora una tenerezza e una collettività che cura, accudisce, unisce. Ne sono esempi il momento in cui si ritrovano gioiosamente a rimettere nel sacchetto nero tuta l’immondizia colorata che il bambino, monello, aveva versato a terra, e soprattutto il momento del distacco. Il bambino disabile, figlio di una madre uccisa dalla violenza del compagno, riesce, sotto lo sguardo stupito delle tre donne, a vestirsi per la prima volta da solo. Ecco che lo stupore di un calzino che diventa guanto cattura anche lo spettatore, che è come se si infilasse le calze, anche lui, per la prima volta e si allacciasse le scarpe insieme all'attore, non avendolo mai fatto, ma avendo coltivato quella capacità dentro di sé. Il bambino diventa adulto e si separa, in una scena emozionante in cui ogni parte dell'attore vibra. Passa, finalmente, la banda, e con essa la speranza di una vita migliore. La potenza evocativa dello spettacolo sta nel richiamare un bouquet di emozioni contrastanti attraverso il corpo dell’attore e l’uso del dialetto (barese, palermitano). Come un pesce nell’acquario, lo spettatore, avvolto dal velluto rosso delle poltroncine, ammantato dalle locandine dell’Arlecchino tradotte in tutte le lingue del mondo, si immerge in un universo simbolico ed emozionale senza tempo. È faticoso, per chi diventa pesce per un’ora (questo il tempo magico dello spettacolo), uscire poi dall’acquario, ma come in un sogno, lo spettatore porta con sé la speranza di relazioni d’amore in cui qualcuno, per noi, spolvera il terreno dove sistema il nostro carillon per la notte. Il bambino va via con una valigia preparata dalle donne, una valigia piena di ricordi, di vestitini da neonato che non gli vanno più, di una fotografia della madre, di giocattoli vecchi. Ed è con quella valigia che noi tutti, come lui, possiamo aprire la porta di casa e immergerci nel mondo esterno.





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